Il libero arbitrio, la vita eterna e la malvagità umana: quel capolavoro chiamato Westworld

Il libero arbitrio, la vita eterna e la malvagità umana: quel capolavoro chiamato Westworld

Have you ever questioned the nature of your reality?

Ci siamo mai chiesti se quella che viviamo sia la realtà o una qualche fedele riproduzione di una specie di simulatore tipo The Sims in cui siamo illusi di poter prendere decisioni?

Abbiamo mai messo in discussione la natura della nostra realtà?

Westworld, con la sua seconda stagione, lo ha fatto. Ci ha mostrato l’animo umano senza filtri, ponendo l’accento sugli esseri umani.

Se la tematica alla base della prima stagione erano gli host e determinate dinamiche relative ai comportamenti umani erano solo accennate, la seconda stagione ci ha voluto mostrare la straziante semplicità dei comuni mortali. Rivelandoci che l’uomo non fa altro che ripetere gli stessi errori perché composto da un “algoritmo semplicissimo”, Westworld ci ha posto davanti ad una questione che attanaglia la razza umana dall’alba dei tempi.

Siamo veramente liberi di scegliere? Da cosa siamo condizionati?

E, se l’uomo è contraddistinto dal libero arbitrio, una macchina che ha piena coscienza di sé a tal punto da poter prendere decisioni, è o non è da considerarsi umana?

E se la macchina, che per sua natura non invecchia e non muore, è da considerarsi umana, qualora la stessa macchina rappresentasse qualcuno che non c’è più, ricreandone non solo l’aspetto fisico ma anche la coscienza e i ricordi, quella macchina sarebbe quella stessa persona?

Qual è, quindi, la linea di demarcazione fra ciò che viene definito propriamente umano e gli host di Westworld (e degli altri parchi)?

La seconda stagione prova a farci interrogare su questi argomenti, senza fornire una risposta univoca ma lasciando trapelare le più profonde paure e debolezze degli esseri umani.

Primo fra tutti, l’unico essere umano di cui questa stagione ci abbia offerto un bell’approfondimento: il Man in Black, William.

L’anziano avventuriero della prima stagione, che da giovane si era innamorato di Dolores, ed è in realtà il genero del signor Delos, il proprietario del parco.

William ammette di aver notato qualcosa crescere in lui durante le sue esperienze nel parco. Non era lo stesso marito che era fuori, non era la stessa persona che era fuori. Non era più William. O, paradossalmente, era William solo quando era nel parco e poteva liberamente decidere di dar sfogo a tutta quella malvagità nei confronti degli host, non considerati come persone.

Ma la sua scelta di agire in modo malvagio era davvero libera? O era semplicemente insita nel suo essere e spacciata da lui come libera scelta? Questo lo metterebbe in contrapposizione con le parole di Teddy che sembrano voler fare intendere che siano proprio gli umani quelli programmati per comportarsi in un determinato modo mentre agli host è stata data la possibilità di scegliere.

Paradossalmente, sembra quasi che gli umani vadano da una condizione di potenziale libero arbitrio verso una di condizionamento, subordinato alle esperienze e all’ambiente circostante, mentre gli host si muovano nella direzione completamente opposta, uscendo dalle storie loro assegnate per abbracciare la capacità decisionale.

Ma se neanche gli uomini, allora, possono davvero usufruire del libero arbitrio, come possono farlo dei robot costruiti da esseri umani per studiare il comportamento di altri esseri umani?

Completamente soggiogato dal parco e dalle reazioni che il parco suscita in lui, William decide di iniziare quello che è a tutti gli effetti un progetto ambizioso: trasferire la coscienza umana in un host in modo da poter fuggire dalla gabbia della mortalità.

Ciò lascerebbe presupporre che William, così facendo, già da giovane avrebbe dovuto comprendere che un host può essere considerato umano. Ma allora mi verrebbe da chiedermi perché si accanisce sempre di più con gli altri host.

La risposta che mi do mi riporta al rapporto tra indole e libero arbitrio. William non sceglie liberamente come comportarsi ma segue semplicemente la propria indole malvagia – scoperta all’interno del parco, dunque derivante dalla sua esperienza nel parco – per giustificare i propri scopi. D’altronde, il fine giustifica i mezzi, no?

La vita eterna creata in laboratorio sulla base di coscienze reali non funziona e ci porta al fantastico e triste episodio in cui assistiamo alla solitudine di James Delos rinchiuso per anni in host che non riuscivano ad andare avanti proprio a causa delle sue scelte impossibili da cambiare (come Logan ci mostra nell’ultimo episodio).

C’è un altro tipo di vita eterna ricreata in Westworld, dopo James Delos. Parliamo di Bernard, host clone di Arnold, ma creato da Ford (con l’aiuto di Dolores) non utilizzando la coscienza vera e propria di Arnold (morto per mano di Dolores) ma attraverso i ricordi che Ford aveva di lui.

Mentre William provava a conservare la coscienza di un individuo, Ford giocava a fare Dio dando vita ad un’entità cosciente e autonoma fin dal principio. Questo gioco gli riesce anche fin troppo bene, dal momento che abbiamo conferma nella seconda stagione del fatto che Bernard ritrovasse Ford dentro di sé, come una specie di coscenza. Come un riferimento al pensiero di Feuerbach per il quale Dio – il Dio creatore – andrebbe ricercato all’interno del proprio io come proiezione di sé stessi e non all’esterno.

Westworld apre questi interrogativi e lascia fermi a riflettere, ad affrontare le nostre paure, a guardare dentro di noi e a farci un esame di coscienza (espressione presa da questo articolo sul rapporto di complementarietà tra Westworld e Lost).

Con sole due stagioni, questa serie sta toccando vette altissime che mi ricordano quasi i bei tempi di Lost, ma d’altronde J. J. Abrams è una garanzia.

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Ventotto anni, appassionata di viaggi e letteratura e con il sogno nel cassetto di diventare scrittrice. Nel frattempo scrivo racconti nell'attesa dell'ispirazione per creare qualcosa di migliore, venero i ravioli cinesi e mi drogo di serie TV.

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