Sei arrivato

Sei arrivato

“Sei arrivato”.

L’auto accennò un brontolio inusuale poco prima di spegnersi.
Sembrava quasi che anche lei stesse manifestando il suo disappunto nei confronti di quella situazione a dir poco assurda. Pareva dirle “ehi, io ti ho solo portato fin qui, ma voglio starne fuori”.

La neve che poco prima abbracciava le colline si era rapidamente trasformata in pioggia man mano che le gomme avevano iniziato a sciare sull’asfalto gelido della città. Il bianco dei boschi d’inverno non ci aveva messo molto a venire inghiottito dal grigio della pianura, dove nemmeno un fiocco danzava più nell’aria. Tutto così diverso.

La vocina esuberante del navigatore si insinuava in quell’atmosfera ovattata, quasi cupa, e impartiva ordini a intervalli regolari, rompendo l’incantesimo con i suoi “svolta a destra, svolta a sinistra”.
Aveva anche avuto il tempo, soffocata nel traffico del lunedì sera, di digitare sull’apparecchio quell’indirizzo che ancora ricordava a memoria. Via D’Annunzio 9. Sempre senza un attimo di esitazione.
Sospirò mentre leggeva i cartelli che le sfilavano di fianco con scritto quel dannato nome di quella dannata città, e i chilometri dimezzarsi ad ogni segnale. Già le sei di sera.

L’arancio dei lampioni si palesò repentinamente mangiandosi ogni emozione, ogni colore. Nemmeno le canzoni che strepitavano dalla radio e che interrompevano la nenia delle indicazioni stradali facevano più effetto.
Non sapeva perché lo stava facendo, non poteva nemmeno definirlo un impeto di ribellione, una ribelle non sarebbe stata così calma, posata e senza nemmeno una smorfia in viso.

Semplicemente, con tutta la naturalezza possibile, aveva imboccato la terza uscita alla solita rotonda. Ci passava tutte le sere, sulla strada per tornare a casa dal lavoro, e mai l’aveva sfiorata l’idea di svoltare proprio lì. Ma i sogni di quelle notti dicevano il contrario, le urlavano di andarci, la supplicavano di ascoltare quella voce nella sua testa che martellava la razionalità da più di un anno. Non era più capace di difendersi con l’indifferenza. L’indifferenza era morta quella notte.
Appena varcate le soglie della città si sorprese a sentirsi felice. Sorrise, prese addirittura a cantare, scoppiò in una risata isterica, accelerò e gongolò finché quel “sei arrivato” non la riportò bruscamente a terra. Che cosa aveva fatto?

Appena l’auto si spense con quel borbottio poco rassicurante, portandosi via le canzoni con sé, e il suono del motore, e ogni altro rumore che l’aveva scortata fin lì, il silenzio iniziò ad alimentare il gelo tutto attorno. Le ci volle qualche secondo per trovare il coraggio di alzare lo sguardo, rendersi conto dov’era e rimanere quasi paralizzata dai ricordi che le scrosciavano addosso.
La via deserta, le luci accese oltre le finestre dei condomini, qualche decorazione natalizia che salutava dai balconi. La pioggia che bussava al parabrezza, che voleva entrare di prepotenza dentro la sua mente. Le fu impossibile non volgere lo sguardo alla sua destra, verso il numero 9, secondo piano. Lì, dove c’era una finestra tra le tante che faceva capolino timidamente sulla strada. Le tende bianche, nemmeno un addobbo, un appartamento discreto che passava del tutto inosservato.
Quanto bene la conosceva quella camera da letto. Il cuore, che ormai non rispondeva più ai pochi comandi imposti dalla testa, prese il timone dei ricordi e la trascinò inevitabilmente nella tempesta.
Quelle stesse tende, quello stesso letto, quello stesso copriletto blu, quelle pareti che avevano assistito alla loro prima volta, quel cuscino così morbido su cui si lasciava andare assaporando l’odore dei loro corpi, quella… quella perfezione.
Loro erano questo insieme. Perfezione. Di quelle perfezioni lontane dagli stereotipi e dalla realtà, per questo ancora più perfette.
Loro erano uno in due, bianco nel nero, un inizio in un finale, un sempre in un forse.
Quando lei si svegliava tra il sapore delle sue mani sentiva di ricominciare ogni giorno una nuova vita e si sentiva così calma, rilassata e senza dubbi che a volte non ricordava fosse ora di alzarsi, avrebbe voluto riaddormentarsi così, senza sogni, perché il sogno era già tutt’intorno.
Loro erano sera di mattina.

Adesso le mattine non erano altro che luce e levatacce, adesso la sera era un po’ più buia e un po’ più fredda e il cuscino non sapeva di niente se non di rimorsi.
Strinse il volante gelido tra le mani e chiuse gli occhi, sentiva solo la pioggia, solo la pioggia. Lui non avrebbe aperto la finestra colto da chissà quale ispirazione, non avrebbe percepito la sua presenza solo perché lei lo voleva, non sarebbe corso fino alla sua macchina per baciarla e dirle “sei tornata”.
Per lui quella era solo una serata di pioggia come tutte le altre.
Niente più giornate fuse con le notti, niente più tepore al risveglio, niente più sera di mattina.
Era sera e pioveva e lei doveva tornare a casa, dormire, svegliarsi presto il giorno dopo per correre al lavoro. Non c’era spazio per i rimpianti, non si sarebbero mai incastrati nella sua vita impegnata e frenetica.
Eppure la voglia di tornare nel luogo in cui era stata più felice in assoluto si era insinuata tra la stanchezza e la razionalità e le aveva sconfitte in meno di un attimo.
“Sei arrivato”, aveva osato dirle il navigatore.
No, aveva pensato lei.
Io da qui non me ne sono mai andata.

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Scritto da

Luna Spenta

Perennemente in bilico tra vita e nostalgia. Scrivo di amore, di delusioni, di passione, e anche un po' di me.

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