Nessuno muore da solo: il finale di Lost a dieci anni di distanza

Nessuno muore da solo: il finale di Lost a dieci anni di distanza

Ormai sono passati dieci anni e io stento a crederci.

Ogni volta che ci penso mi chiedo come abbia fatto a sopravvivere per dieci anni senza di lei, senza la serie che ha segnato la mia vita più di qualsiasi altra. Dieci anni sono tanti e sono passati tra serie tv più o meno belle. Certo, ne sono arrivate molte di altissimo livello, alcune di un livello tecnico obiettivamente nettamente superiore a lei, ma il motivo è uno solo: Lost ha rivoluzionato così tanto il mondo delle serie tv che tutto, dopo di lei, è stato diverso. Ha messo tutti sulla giusta strada, una strada forse inevitabile, e non si può negare quanto Lost sia stata di fondamentale importanza per tutto quello che è venuto dopo.

Sono passati dieci anni, dicevo, da quella notte che passai sul divano in attesa che iniziasse l’episodio, uno dei primi finali trasmessi  contemporaneamente con gli Stati Uniti prima che diventasse di rito. Me la ricordo quella nottata e ricordo ogni singola sensazione che provai.

Dalla tristezza immensa per la fine di qualcosa a cui ero strettamente legata, all’adrenalina per la voglia di sapere come sarebbe andata a finire, al senso di vuoto e pienezza allo stesso tempo che ho provato quando quella porta si è aperta e l’occhio di Jack si è chiuso per sempre su questo mondo e la scritta “Lost” è rimasta a fluttuare nel nero dello schermo, quasi a ricordarci che in quel momento ci eravamo tutti persi e ritrovati insieme.

Dieci anni sono tanti e tante recensioni sono state scritte su Lost. In tanti, me compresa, la considerano la miglior serie televisiva di tutti i tempi; molti continuano a paragonarla a serie tv come Breaking Bad – indubbiamente di un eccellente livello qualitativo; altri ancora, invece, non l’hanno apprezzata, ma è opinione comune e diffusa che gran parte delle persone che non l’ha apprezzata non sia in realtà riuscita a comprendere il finale (non me ne vogliate, ci sono sicuramente pareri soggettivi e pareri oggettivi, ma continuare a ripetere che non è piaciuta perché erano tutti morti fin dall’inizio equivale ad ammettere di non aver capito nulla del finale).

Sì, perché Lost è una serie che cambia, in ogni senso. Cambia da stagione a stagione, muta, si reinventa ma ha l’abilità di rimanere nei suoi schemi anche quando sembra uscirne e riesce a far quadrare (più o meno) tutto in quadro più ampio. Ma cambia anche noi, che mentre la guardiamo arriviamo ad un punto in cui non sappiamo più cosa pensare, salvo poi essere di nuovo trascinati nel suo vortice e capire che non c’è niente da capire, che Lost è un viaggio e come tale va vissuto fino alla fine per essere compreso. Come un viaggio, la bellezza di Lost è ciò che rimane quando è finito, che permette di rimettere insieme i pezzi e farsi un bel pianterello di nostalgia.

Lost non è mai stata una serie di semplice comprensione o una serie alla portata di tutti. Tempo fa, qualcuno l’ha definita usando le parole che secondo me la rispecchiano di più: “un atto di fede”. Di Lost bisogna fidarsi e a lei bisogna affidarsi, senza farsi troppe domande.

Il viaggio inizia in un mondo tangibile, su un piano pratico, in una situazione concreta: un aereo precipita su un’isola deserta. Più reale di così.

Molti dei passeggeri sopravvivono e questo sembra più che vero quando succede, perché alla fine dovrebbero dirci allora che erano tutti morti nello schianto iniziale?

Lo vediamo con i nostri occhi, ascoltiamo le storie di tutti questi sopravvissuti che devono adattarsi alla nuova vita su un’isola dove nessuno sembra riuscire a trovarli. E così passano le prime tre stagioni, dove abbiamo un primo assaggio di ciò che significa “destino”, dove conosciamo gli “altri” e percepiamo che ci sia qualcosa di strano, qualcosa di paranormale anche se non riusciamo a collocare questi elementi all’interno della trama, ma ci va bene così.

I problemi, secondo tante persone, sorgono con il cambiamento radicale che c’è fra le prime tre stagioni e le restanti tre, in cui il piano concreto e tangibile della serie si sgretola sempre di più lasciando spazio a tantissima mitologia, a formule fisiche, a predestinazione e tanta, tantissima, poesia.

Il cuore di Lost, così come il cuore di questa isola misteriosa, è la poesia che collega i destini di tutti i sopravvissuti in una ballata commovente e da brividi. Le vite di ognuno di noi sono collegate da qualcosa di più grande del trovarsi tutti nello stesso posto nello stesso momento e questo si riflette nella quotidianità di tutti noi.

Quante volte, dopo Lost, mi ritrovo a pensare alle persone che ho intorno e al motivo che ci ha portato ad essere fisicamente vicini in un dato momento: che sia nel traffico o in fila al supermercato. I personaggi di Lost, tanti – a tratti anche troppi – sono come delle piccole schegge che sfrecciano e si sfiorano, intaccando inesorabilmente l’uno la vita degli altri, senza però che se ne rendano conto.

Lost ci ha insegnato che siamo tutti collegati tra noi attraverso un filo, una costante, che ci porta inevitabilmente nel punto in cui dobbiamo essere.

È così che Desmond Hume, la costante della serie e della vita di tutti i protagonisti, nell’ultima stagione assume un ruolo più che centrale: è suo il compito di radunare tutti i suoi compagni di viaggio, che in questa apparente realtà alternativa si sono incontrati lo stesso pur non condividendo il naufragio sull’isola, e di portarli tutti in un posto.

Dopo viaggi nel tempo e paradossi temporali che sono serviti a farci capire che possiamo fare quello che vogliamo ma saremo sempre legati ad una forza maggiore che deciderà per noi, nell’ultima stagione la trama sembra andare scemando con la creazione di questa “realtà parallela”. A nessuno piacciono i multiversi, lo so, il più delle volte questo espediente rischia di far incasinare tutto. Ma non in Lost.

No, perché è proprio questo il punto ed è proprio qui che tutti si incagliano quando si tratta del finale.

Pensiamo fino all’ultimo episodio che quella che vediamo sia una realtà parallela e ci chiediamo come sia possibile che questa sia collegata alla trama che abbiamo visto fino a quel momento. Finché, nell’ultimo episodio, ci è chiaro che si tratta di una specie di limbo. E da qui sorgono i problemi.

Se è un limbo – pensa gran parte delle persone – allora i protagonisti sono tutti morti.

Sì, questo è vero. Ma quando? Christian Shephard lo spiega in modo cristallino. Così cristallino che io non mi capacito di come ci sia ancora qualcuno a cui questa cosa non è chiara.

Sono tutti morti, ma in momenti diversi. I momenti della morte di ognuno di loro coincidono con il momento del loro “risveglio” in questa nuova realtà, della loro presa di coscienza, che – guarda caso – è traghettata verso l’aldilà dalla costante della serie, Desmond Hume. Ditemi voi se può esistere una cosa più poetica di questa.

Ogni personaggio è morto in un momento differente. Juliet nel momento dell’esplosione (e se ci fate caso, in quel momento parla proprio a James di prendersi un caffè, cosa che gli ripete al loro incontro alle macchinette – la mia scena preferita in assoluto), Sayid nel sottomarino, Charlie dopo aver constatato che non si trattasse della nave di Penny nella terza stagione (lacrime ne abbiamo ancora?), e Jack alla fine di tutto, Hurley probabilmente tantissimi anni dopo la fine di tutto.

Il momento di ritrovo dentro la chiesa è un momento fuori dal tempo e dallo spazio, un momento che avviene anni se non secoli dopo i fatti che vediamo sull’isola. Un momento ricreato da tutti per potersi ritrovare – in un’altra vita – e andare avanti insieme.

Questo è il senso di ogni cosa. Il senso di ogni singolo episodio di questa serie meravigliosamente profonda e intima. Il senso di tutto ciò che abbiamo visto e di tutte le volte che ci siamo chiesti “ma questo cosa c’entra?”.

Nessuno muore da solo. Non importa in cosa si creda, tutto questo va al di là della religione, si tratta di una propria fede personale in qualcosa che ci accomunerà anche in un’altra vita. Non importa che lo si chiami Dio, Destino o con qualsiasi altro nome.

Desmond ce lo diceva fin dall’inizio e senza volerlo – o forse sì – lo aveva detto alla persona che più di tutti era scettica a riguardo, l’uomo di Fede, il chirurgo Jack Shephard, per cui la morte significava semplicemente spegnere la luce e andarsene in solitudine.

La potenza di tutti questi discorsi che spaziano dal filosofico al metafisico è la potenza di Lost, il cui significato implicito è la speranza in un filo che ci leghi sempre, anche in un’altra vita, alle persone che abbiamo amato.

Questo filo lo cerchiamo durante tutte le stagioni, attraverso il vissuto di personaggi ognuno dei quali combatte una battaglia e ai quali ci affezioniamo incondizionatamente. Non importa che fossero ladri, medici, torturatori, sfortunati, scienziati o musicisti drogati. Assistiamo al loro desiderio di rinascita e di ricongiungimento con qualcosa, un qualcosa che lì per lì non riusciamo a capire cosa sia ma che poi capiamo essere la vita stessa che era mancata a tutti prima di cadere sull’isola e rendersi conto man mano che nessuno di loro sarebbe morto da solo.

Lost ha un finale dal significato tanto semplice quanto complesso.

A livello strutturale, tutto quello che abbiamo visto nella serie è stato reale ed è successo davvero. A parte quelli che abbiamo visto morire nello schianto, gli altri sono sopravvissuti tutti quanti.

La lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre, è stata più reale che mai e, mentre la serie assumeva tinte sempre più vaghe, si è concretizzata sotto i nostri occhi con la storia di Jacob e di suo fratello, dei quali ancora non sappiamo chi fosse veramente il buono e chi il cattivo.

Questa lotta, che è al centro di tutto l’universo di Lost, ci ha condotti alla spiegazione del destino ed infine a dare una conclusione alle storie di tutti i personaggi, vedendoli riuniti in un momento-non-momento chissà dove e chissà quando, ma insieme, pronti per andare avanti.

È innegabile che Lost abbia toccato corde nei cuori di chi lo ha guardato che poche altre serie sono riuscite a fare, affrontando argomenti spinosi e delicati con una saggezza incredibile. Personalmente la ritengo una serie perfetta, nonostante qualcuno voglia farmi notare che ci fossero delle imperfezioni. Più del 90% delle domande ha avuto risposta, le poche cose rimaste scoperte probabilmente sarebbero state ininfluenti ai fini della trama.

Sono passati dieci anni da quando il finale di Lost è andato in onda e non sono riuscita ancora a trovare una serie TV che mi abbia trasmesso le stesse sensazioni di bellezza o che sia all’altezza della spiritualità.

Ma probabilmente, di serie come Lost, non ne vedremo neanche in un’altra vita.

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Ventotto anni, appassionata di viaggi e letteratura e con il sogno nel cassetto di diventare scrittrice. Nel frattempo scrivo racconti nell'attesa dell'ispirazione per creare qualcosa di migliore, venero i ravioli cinesi e mi drogo di serie TV.

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